Trovare risorse umane sul web

Cristina Maccarrone (Carmine fotografie)

Cristina Maccarrone (Carmine fotografie)

L’ho chiesto a Cristina Maccarrone, blogger, giornalista e community manager. Oltre che di lavoro abbiamo parlato anche di giornalismo online e di alcuni aspetti chiave del community management.

Ne sono venuti fuori spunti importanti… personalmente ho capito che l’Italia ha un modo anomalo di gestire i curriculum vitae di chi cerca di entrare nel mondo del lavoro, e che forse è meglio cercare opportunità facendo rete. Il resto è scritto qui sotto.

 

Ciao Cristina, ti va di raccontarci i tuoi attuali focus lavorativi?

Ciao Francesco, grazie intanto per questa opportunità. Al momento, dopo anni passati in azienda, lavoro come giornalista e blogger da libera professionista. Una scelta ponderata e voluta perché ho capito che non avere orari, potere disporre del mio tempo, prendermi tutto quello possibile per analizzare qualcosa di cui posso e voglio scrivere, sono tutte situazioni che si confanno bene al mio modo di essere. Collaboro con diverse testate online e blog aziendali, tra questi 6Sicuro, Si fa presto a dire banca, Changes, Osservatorio Diritti, Milano Weekend e altri, scrivendo principalmente di mondo del lavoro, diritti, startup, impresa, sostenibilità, coworking economia e di arte. Gestisco inoltre le pagine Facebook e gli account Twitter di alcune aziende e faccio anche una cosa che mi piace moltissimo: giro i coworking e li racconto nel blog della Rete Cowo®. Il coworking di Milano Lambrate è uno di quelli che mi ritrovo a frequentare di più.

 

Qual è oggi l’ostacolo più grosso nella ricerca del lavoro?

In Italia, credo che il più grosso ostacolo sia potere avere l’opportunità di farsi conoscere. Mi spiego meglio: i siti sono pieni di annunci, LinkedIn ne pubblica di continuo così come da qualche tempo si trovano annunci di lavoro anche su Facebook. I problemi sono principalmente due: il primo è che non tutti questi annunci sono veri. In ottica di corporate branding, ci sono aziende che pubblicano offerte di lavoro sui propri siti o esterni o che vanno ancora ai career day (le fiere del lavoro) ma non stanno davvero cercando. L’obiettivo è di investire pochi euro per fare promozione, far sembrare che l’azienda stia crescendo e che abbia dunque all’attivo molte ricerche. Così come molte aziende pubblicano annunci per cercare figure che non devono essere immediatamente inserite: lo scopo è “raccogliere cv” per quando poi – forse – serviranno davvero. 

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Il secondo aspetto, che è in parte collegato al primo, è che le Risorse Umane o gli stagisti che si occupano di fare un primo screening, non danno quasi mai riscontro né dell’avvenuta ricezione del cv né della selezione in corso. A differenza di come avviene in Svizzera o in altri Paesi Europei, in Italia non sai mai perché, pur avendo tutte le caratteristiche richieste, non sei stato chiamato a fare neanche un colloquio conoscitivo. Non hai riscontri e non hai neanche occasione di farti conoscere: come fai a trovare lavoro? E quando capita di essere stati convocati per un colloquio, non sempre le Risorse Umane danno un feedback su come è andato. Niente di più sbagliato: il mondo del lavoro è un punto di incontro tra due realtà, quella aziendale e quella del lavoratore, pertanto è giusto che il rapporto non sia unilaterale e basato solo su regole dettate da una delle due parti in gioco.

Credo che la ricerca tradizionale ormai valga molto poco e sia molto più significativo il crearsi una rete di conoscenze che aiuti a trovare se non un lavoro fisso, almeno una occasione di lavoro. Lo stesso può avvenire nell’azienda: se l’HR si sveste del suo ruolo tradizionale e va a cercare il possibile candidato, se utilizza la sua rete e se fa sì che l’azienda stessa ragioni come un grande network, le opportunità per chi cerca lavoro aumentano.

 

Si può fare buon giornalismo e “acchiappare” visite da Facebook allo stesso tempo?

A mio parere sì. Certo, negli ultimi giorni Facebook si sta dimostrando, più degli altri, il social network dove proliferano le bufale e le condivisioni di esse, dove i commenti ad articoli e fatti di cronaca vanno oltre il buon senso e il rispetto dell’altro, ma continua comunque a essere fondamentale per il giornalismo. E non tanto e non solo per il recente annuncio di far pagare le notizie, ma perché rappresenta un’ottima vetrina e ancor di più l’occasione per avvicinarsi ai lettori, per capire cosa apprezzano, come lo condividono, quali dubbi hanno in merito e tanto altro. Questo non vuol dire essere schiavi dei lettori, ma ricordarsi che si scrive principalmente per loro e capire come far arrivare loro determinate notizie e informazioni. 

C’è poi da dire che bisogna capire cosa si intenda per “buon giornalismo”. Io credo che non lo siano solo le inchieste – per altro sempre meno – o gli approfondimenti, ma che grande importanza abbia il giornalismo di servizio, ossia quello informativo che non dà chissà quale scoop né ultima notizia, ma aiuta a capire come funzionano certi meccanismi. Io scrivo spesso di contratti, agevolazioni nel mondo del lavoro e altro e mi rendo conto di quanto bisogno ci sia di chiarezza. E fare da medium tra le cose dette in tono legalese e il linguaggio di ogni giorno, credo sia fare quello che un giornalista deve fare: essere un mezzo di comunicazione e aiutare a diffondere conoscenza, il più corretta possibile.

 

Quali sono gli ingredienti per far crescere bene una community online?

Credo che siano validi tutti quelli del Communties Manifesto di Stan Garfield, tra questi il fatto che le community debbano essere basate su ciò su cui gli utenti vogliono davvero interagire, l’essere differenti da dei team: nessun compito assegnato dall’alto, ma il prevalere di topic, l’esistenza di una massa critica, una policy chiara e condivisa che faccia sì che nessuno vada fuori dai temi della community o assuma comportamenti scorretti. E soprattutto il creare valore e condividerlo. Ci sono community che fanno il botto inizialmente perché riescono a colmare un bisogno che nessuno aveva colmato, ma poi questa qualità non viene mantenuta nel tempo né dal community manager (chi gestisce la community) né dai membri mentre altre continuano a mantenere standard elevati. 

Come dicevo prima, in questo gioca un ruolo fondamentale la massa critica: gli iscritti a una community possono essere tanti, ma come sappiamo la percentuale di chi partecipa attivamente è sempre più bassa rispetto al numero totale. Se però questa percentuale riesce a favorire discussioni che possono interessare più persone possibili, se gli scambi sono di valore, se si trovano strumenti interessanti, opportunità, aumentano le risposte e le condivisioni. 

Ho diverse esperienze come community manager, lo sono stata per delle community B2B in cui la direzione centrale sceglieva appunto lo strumento della business community per comunicare con le forze lavoro dislocate nel territorio nazionale. Ho lavorato, in questo caso per assicurazioni, compagnie di telecomunicazioni, banche e contava sempre questo: dare un motivo alla gente per tornare. Le community devono informare, dare notizie, fornire strumenti per migliorare il proprio lavoro se sono professionali, per dedicarsi meglio al proprio hobby se per esempio mettono insieme appassionati di giardinaggio o serie TV.

Credo che, come ho accennato prima, non possa esistere una community valida e in crescita senza che ci sia chi svolge il ruolo di community manager.

 

Hai fatto il profilo su Sarahah? Che ne pensi?

No, non ho fatto il profilo su Sarahah e non lo farò. Per tanti motivi: credo che quest’app/social e quello che sia che ha come significato “onestà” non abbia niente di onesto e che, invece, rappresenti la degenerazione della libertà che ci ha dato il Web. La mia prof delle medie mi ha sempre detto “La libertà di uno finisce dove inizia quella di un altro” e credo che quando dici cose negative su qualcuno, arrivi persino a insultarlo senza spiegargli né i motivi né soprattutto dandogli la possibilità di replicare, gli hai rubato un pezzo di libertà. Qualcuno mi ha detto “sono le persone a fare il mezzo e non il contrario“, asserendo pure che se qualcuno vuole fare minacce anonime, proferire insulti ecc.. non ha per forza bisogno di Internet, basta che vada alla posta e mandi una missiva anonima. A parte il fatto che in quel caso comunque si vede quantomeno la provenienza, non è questo il punto. 

Io credo che sì, siano le persone a fare il mezzo, ma che non tutte siano in grado di capire le implicazioni di quello che fanno. Lo si vede dal fatto che si è creato tantissimo allarmismo quando si è scoperto che l’app prende i dati della rubrica. Non sarebbe la prima volta che succede ma ecco non si era così informati come si dovrebbe. Tornando al motivo per cui è stata creata Sarahah, anche su questo dissento e lo faccio da giornalista che scrive di lavoro: trovo tutt’altro che utile un ambiente di lavoro dove un dipendente non può dire in maniera costruttiva al proprio datore di lavoro cosa c’è che non va. Sappiamo bene che non tutti i datori di lavoro sono aperti a critiche e hanno voglia di ascoltare i dipendenti, ma un ambiente sereno si costruisce confrontandosi e avendo la libertà di metterci la faccia. Pertanto, preferisco che mi vengano fatte osservazioni e critiche anche su Facebook stesso, ma da gente cui ho modo di replicare. Diversamente credo che il dibattito sia fine a se stesso e che si esaurisca in un post sullo stesso Facebook con una immagine tratta da Sarahah. A proposito, hai notato quanti tendano a pubblicare gli screenshot di Sarahah su Facebeook e a “chiedere” pareri? Ciò sta a dimostrare che si preferisce – per fortuna – portare il confronto su un altro livello, sempre ammesso che chi commenta non ecceda, come purtroppo capita sempre più frequentemente sui social.

 

Cosa suggeriresti a chi vuol fare il giornalista sul web? Da dove cominciare?

Suggerisco di analizzare bene il mondo dell’informazione e le sue evoluzioni. Il mestiere è molto cambiato da quando si era solo giornalisti su carta e non esistevano i social. Io stessa ho iniziato sulla carta, senza sapere niente di SEO, CMS e tanto altro che ho imparato strada facendo. Consiglio, se possibile, di iniziare aprendosi un blog per sperimentare come si “costruisce” il pezzo online, come valorizzarlo, come far sì che venga trovato quando si fa una ricerca su un determinato argomento. Molti colleghi o aspiranti tali mandano ancora il pezzo su word senza sapere come confezionarlo.

E ancora, bisogna non solo conoscere un po’ la SEO e i CMS, ma anche avere idea di come modificare le immagini, come creare da sé una card, una gallery, una miniinfografrica o altro. Questo si può fare sì con la pratica, ma anche studiando e andando a eventi – di cui molti gratuiti – per imparare semplicemente ascoltando. Gli eventi sono poi molto utili per conoscere gente, farsi vedere e avere magari occasioni di lavoro. Anche io e te ci siamo conosciuti a un evento, il Joomla Day, ed è stato un incontro molto interessante. Inoltre, chi vuole scrivere sul web deve curare bene il proprio personal branding fin da subito usando i social in maniera professionale. Il che non vuol dire non postare mai niente di personale, ma ricordarsi di farlo in un certo modo. A me capita spesso di essere contattata da persone che mi fanno domande sul mondo del lavoro o di essere inserita in tante liste su Twitter per gli argomenti di cui scrivo: è, a mio avviso, una conferma del fatto che sto lavorando nella direzione giusta.

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