Quanto costano gli errori di comunicazione

Facebook può davvero insegnarti come stare al mondo, ma lo capisci solo dopo un po’. I primi anni li trascorri a discutere con leggerezza di qualsiasi cosa, ridendo e indignandoti ora di questa e ora di quella notizia, mutando il tuo umore da un momento all’altro. È incredibile quanto velocemente le sollevazioni popolari nascano e muoiono. L’ultimo caso riguarda Pandora, che avrebbe commesso un “madornale errore di comunicazione”, pubblicando un messaggio di tipo sessista a detta di chi si è sentito turbato nel constatare come la condizione della donna “schiava, zitta e lava” venga ancora trasmessa in modo palese a livello di comunicazione pubblicitaria.

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C’è stato un tempo, neanche lontanissimo, in cui vedevo scoppiare queste bombe e pensavo che si sarebbero prospettati tempi bui per il brand o la persona interessata dallo “shit storm”. Poi ripensi al caso Moncler del 2014 che costituì la tempesta di fango più grave dai tempi del diluvio universale. Ce lo ricordiamo tutti per come se ne parlò e allo stesso tempo ci ricordiamo tutti come (e quanto velocemente) la cosa scivolò in secondo piano rispetto ad altre “emergenze” della comunicazione.

 

È colpa del web?

Se stai pensando che dietro a queste amnesie collettive ci siano le dinamiche del web e in particolar modo della comunicazione mediata attraverso i social network, devo dirti che la penso come te, ma solo in parte. Storicamente programmi TV come Report hanno trasmesso notizie di natura geopolitica o socioeconomica dalle implicazioni talmente gravi che guardando il programma avresti immaginato immediate interrogazioni parlamentari, arresti eccellenti e crisi istituzionali, invece la mattina dopo come per magia non se ne ricordava più nessuno. All’indomani della verità più scottante fatta emergere dal lavoro di inchiesta più serio e rischioso, l’agenda mediatica si riempie di notizie su tutt’altro e l’incantesimo dell’oblio si compie, puntuale.

 

Il web e l’oblio digitale

Dunque non è il web a ingenerare questo fenomeno, semmai sono le persone stesse, in base al meccanismo di avarizia cognitiva a dimenticare sistematicamente ciò che non le colpisce in prima persona. Il web non è tuttavia innocente, anzi peggiora le cose nella misura in cui si pone come l’universo delle alternative possibili tra cui scegliere per fruire contenuti e informarsi. L’internet non viene subìto come la TV, viene scelto e partecipato dagli utenti, talvolta loro malgrado. La scelta però in questo caso non è un fatto di libertà, ma una costrizione. Se lavori sul web sei costretto a frequentare facebook, a twittare, a seguire un blogger o un gruppo tematico, pena il non restare al passo con gli altri. È un meccanismo devastante, che fa rimpiangere quello pur inesorabilmente anestetizzante della televisione.

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Se la TV risponde alla teoria dell’ago ipodermico, secondo cui i contenuti scorrono direttamente sotto pelle rendendoti spettatore passivo della comunicazione, con il web siamo alla tossicodipendenza piena: è vero che scegli tu cosa vedere, ma è pur vero che non sei capace di fermarti, come dire “smetto quando voglio”.

 

Le conseguenze della comunicazione fatta male

Qui mi aspetto valanghe di critiche. Fin quando le cadute di stile, gli scivoloni pubblici e tutte le (varie) forme di cattiva gestione della comunicazione non impattano direttamente sugli interessi primari delle persone, il meccanismo di oblio sarà inesorabile. Questo principio rende pressoché inutili tutte le riflessioni sul crisis management e più o meno la metà delle cose su cui si fanno corsi di comunicazione per “vincere sul web”. Se poi nei suddetti corsi spiegano che puoi dire quello che vuoi, tanto domani non frega più niente a nessuno, allora iscriviti pure.

Sto minimizzando? Può darsi, ma solo perché sono costretto a farlo. Tutti riduciamo e minimizziamo ciò che accade in presenza di stimoli che ci distraggono. Le faide interne tra chi si detesta resteranno tali, ma per il resto rimaniamo qui, allegri e festanti, pronti a cliccare like o sigh come scimmie ammaestrate.

Chissà da chi…

 

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