Perché i coach non servono a niente

Esistono articoli che dividono i lettori in fazioni, ma non spostano le opinioni. Questo è uno di quegli articoli. Sento l’esigenza di fare una riflessione sulle persone che ti aiutano a fare cose e su quelle che ti aiutano ad essere una persona migliore.

i coach non servono

i coach non servono

 

Pensa ad un ciabattino, ad un fornaio, ad un idraulico e ad un personal coach. Sono tutte persone che pretendono di migliorare la tua vita facendo qualcosa per te: uno ti aiuterà a camminare comodo, un altro ti venderà il pane, un’altro ancora ti mostrerà concretamente come ci si arricchisce a dismisura, poi c’è il personal coach.

 

Si può aiutare qualcuno a migliorare?

È sicuramente questa la domanda che divide le persone, ma è una divisione di convenienza: da un lato ci sono le persone che scrivono libri, vendono corsi  – o li comprano –  sulla crescita personale per fare business e vincere al grande gioco della vita. Dall’altro ci sono persone, prive dell’attitudine a seguire indicazioni di sorta, refrattari alle regole stabilite da altri, intolleranti alle sponsorizzazioni in cui persone “straordinarie” ci ricordano che a credere in noi stessi, tutto sommato non siamo un granché, quindi abbiamo bisogno di aiuto.

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La questione è che questi professionisti della programmazione neurolinguistica, questi comportamentalisti, questi neuroscienziati, hanno interesse a venderti il loro servizio, quindi diranno che funziona. Allo stesso tempo che ha acquistato consulenza o corsi da queste persone investendo tempo e soldi, difficilmente sosterrà di essersi trovato male, sia perché alla fine qualche suggestione gradevole ti rimane, ma soprattutto perché dovresti ammettere con te stesso di aver perso tempo e soldi, cosa invero scomodissima e tale da far suonare immediatamente tutti i campanelli percettivi più rumorosi.

Hai presente chi ha studiato scienze politiche o sociologia? Queste persone si dividono spesso in due tronconi: se hanno trovato un buon lavoro sono spesso disposte ad ammettere che quei percorsi accademici non servono a niente, se invece stentano a trovare una posizione solida, o vivono nell’insoddisfazione professionale, tenderanno a tenersi stretto il sudato titolo di studio, sostenendo che gli avrà conferito una visione del mondo più ampia. Ma anche in questo caso, la verità è che dover ammettere con se stessi di aver buttato da 5 a 10 anni della propria vita per un corso di laurea tenuto in piedi solo per tradizione e ormai lontano anni luce dal mondo vero, sarebbe un brutto quarto d’ora.

 

Migliorare cosa?

Se per migliorare intendiamo capire come si fa una cosa è un conto, ma se parliamo di migliorare se stessi credo ci sia un problema di fondo: non è il servizio militare che ti forma il carattere, non è l’università che ti apre la mente e non sono i coach a migliorare la tua vita professionale o (magicamente) il fatturato della tua azienda: è la vita stessa a farti macerare finché non capisci cosa va bene per te, qual è la strada. E lo capisci sicuramente, in questa vita o in un’altra.

Se vogliamo vederla sotto un altro punto di vista, è probabile che i coach stiano lì a posta per farti prendere atto che migliorare sé stessi non è come imparare a sciare. Qualunque corso può cambiarti la vita, ma non esiste un corso che ti permetta davvero di fare introspezione, perché ognuno di noi è una storia a sé. Insomma, certe cose te le devi vedere da solo… e stai certo che te le vedrai da solo.

 

Come imparare a volere di più?

Mi viene in mente quel passaggio dell’intervista a Carlotta Silvestrini sul brand design, pubblicata in questo blog:

«Un giorno – dopo 3 mesi di lavoro gratis nella speranza di prendere un grosso cliente che doveva essere la mia “svolta” – mando un preventivo per consolidare anche contrattualmente tutto ciò che nei mesi precedenti avevamo pensato, studiato e abbozzato con tanto di naming per le linee di prodotto, loghi e strategie. Il cliente riceve il preventivo (sottocosto, se vogliamo dirla tutta), si complimenta con me per tutto il lavoro svolto e mi dice che a quel punto è già autonomo per farselo da solo.
Al che ho capito che la mia consulenza valeva. E ho finalmente avuto il coraggio di vendere il mio valore».

Per me è un passaggio quantomai significativo. Carlotta non ha seguito un corso di brand management, e certamente non ha consultato un coach per imparare a vendere meglio il suo lavoro. Carlotta sì è semplicemente esposta, ha preso fregature, ha commesso errori, ha fatto cose. Si tratta semplicemente di commettere sempre errori nuovi e non ricadere negli stessi ogni volta.

Pensi di farcela da solo?

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