Il copywriting “Persuasivo” esiste davvero?

Oggi ci occupiamo di due parole che messe vicino fanno storcere il naso a molti copy professionisti. Una è persuasive, l’altra copywriting. Il persuasive copywriting è – o dovrebbe essere – una modalità di scrittura professionale legata agli ambiti lavorativi nel mondo della comunicazione. In particolare ci si riferisce alla scrittura che serve a far compiere un’azione precisa, spesso legata alle dinamiche di conversione di un progetto web, quando non proprio all’affiliate marketing.

Persuasive copywriting

Persuasive copywriting, esiste davvero?

 

Ultimamente ho intervistato Marcello Marchese su questo tema. Mi ha descritto una modalità operativa che parte spesso dai social e si completa con il lavoro sulle pagine del sito obiettivo. In particolare l’arco d’azione di questa disciplina si origina nel click bait e finisce con la scelta delle parole giuste per condurre gli utenti a fare click su di un link in particolare. Gli obiettivi possono essere altri, ma per comodità ci fermiamo qui, tanto si capisce.

 

Click bait

Il copy “persuasivo” non si occupa solo del testo, ma anche del rapporto tra questo e un’immagine, che come sai raggiunge la nostra percezione molto (ma molto) prima del testo. Il click bait è letteralmente un “click all’amo”, pescato grazie ad un’esca, vale a dire uno o più elementi che messi insieme generano un desiderio – ultimamente più un bisogno compulsivo – di cliccare sul link per approfondire l’argomento.

La discussione sul click bait è figlia dei tempi in cui viviamo, soprattutto dell’accelerazione dei processi creativi, lavorativi e in genere sociali, determinata dalle tecnologie digitali. Sì, quelle che dovevano semplificarci la vita. La follia è che non siamo multitasking, ma il mondo in cui siamo piombati presume che dobbiamo esserlo, quindi assorbe tutta la nostra attenzione procurandoci un importante deficit cognitivo. È in questa zona scoperta che si innesta il fenomeno click bait. Siamo troppo impegnati nel tentativo vano di compartimentare la nostra attenzione da capire che ci è stato lanciato un amo, così abbocchiamo, trovandoci a leggere un contenuto che 9 volte su 10 è insignificante o proprio spam.

La nostra capacità di attenzione non viene dunque segmentata in compartimenti, ma finisce proprio a brandelli disorganizzati. Se Durkheim fosse vivo oggi, parlerebbe di anomia in questi termini: ci troviamo nell’impossibilità di riconoscere e distinguere ciò che ci serve da ciò che NON ci serve, quindi vaghiamo senza meta, come fossimo senzatetto dall’intelletto ridotto ad una frittata con dentro un po’ di tutto. Sintetizzando, un “homeless – omelette”. Del resto, se i pesci rossi riescono a mantenere l’attenzione per circa un secondo più di noi, è chiaro che qualcosa non va. Però questa è un’altra storia.

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Che esistano le condizioni in cui il fenomeno click bait può attecchire lo hanno capito un po’ tutti, perfino i grandi giornali generalisti che negli ultimi anni sono stati costretti a scadere a loro volta in forme di clickbait per mantenere livelli di traffico accettabili. Quante volte ti sei trovato a commentare “diamine, credevo fosse Lercio.it”, invece no, era una testata di quelle storiche, i cui redattori si sono arresi ai tempi che corrono, all’iconorrea dilagante, al flusso “turbocapitalistico” di non informazioni, fatte apposta per menti che non devono ragionare, ma rispondere agli stimoli esterni come il cane di Pavlov.

L’immagine del capo politico con la ex fidanzata di fianco cerchiata in rosso, accompagnata dalla headline “non puoi immaginare cosa hanno fatto” è un classico esempio di comunicazione persuasiva da pesca dei tonni. La cosa più assurda è che a partire dallo stesso messaggio puoi ritrovarti su di una pagina che cerca di venderti un orologio o una consulenza per investire in criptovalute. La mia conclusione è che un po’ sono bravi loro… e un po’ siamo tonni noi.

 

Pagina persuasiva

Anche qui parlare solo di testo è riduttivo. Una volta che sei finito sulla pagina obiettivo, sono tutti gli elementi che la compongono a portarti verso la conversione, non solo il testo che tuttavia ricopre un ruolo importante perché può far leva sui classici principi psicologici che puoi trovare nel libro di Robert Cialdini “le armi della persuasione“. Scarsità, urgenza, riprova sociale etc., sono armi che un copy esperto padroneggia e che a certe condizioni – soprattutto quando l’utente è già interessato – possono costituire un utile rinforzo per finalizzare la vendita o la transazione in genere.

 

E i copy NON persuasivi?

Ora mi domando – e chiedo a tutti i copy secondo cui scrivere di persuasive copywriting è ridondante – se un copywriter professionista debba necessariamente fare i “mestieri” descritti fin qui. Non esisteranno da qualche parte i copy che si occupano “solo” di sviluppare contenuti per rispondere nel modo più accurato alle intenzioni di ricerca degli utenti? Non ci saranno (magari nascosti bene) anche copywriter che puntano a fare traffico incrementale limitandosi ai ragionamenti sul fantomatico contenuto utile? E perché non parlare dei copywriter che si occupano di pubblicità? Il loro lavoro è sviluppare headline che rendano più appetibile un prodotto, magari più “simpatico”, pur senza fare la pesca dei tonni.

Io non credo che tutto il copywriting debba essere per forza e sempre persuasivo. Penso piuttosto che esistano diverse sfaccettature di questo mestiere complesso e affascinante. A partire da qui un professionista può scegliere di approfondire una strada o percorrerne anche altre, così come un SEO può specializzarsi negli aspetti analitici, nell’ottimizzazione, nella link building o appunto nella “SEO copywriting”, che è un altro caso di cui si potrebbe discutere come si discute di persuasive copywriting.

Insomma, spero di non averla fatta troppo lunga e che ne nasca un bel confronto.

A voi la parola.

One Response

  1. Andrea Lisi 03/07/2019

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