La chiacchiera con Matteo Pogliani

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Matteo Pogliani

Matteo Pogliani è un consulente di comunicazione digitale, blogger, cestista e runner. È da poco uscito il suo libro Influencer Marketing, quindi ho deciso di fargli qualche domanda sul magico mondo degli influencer, perché credo in questo momento più che mai ne valga la pena.

Ciao Matteo, come nasce il tuo interesse per la figura degli influencer?

Ciao Francesco e grazie mille per l’opportunità. Allora… partiamo dall’inizio. Nella mia avventura nel digitale e nei social, ho sempre avuto molta sensibilità e attenzione verso il lato umano e le relazioni online.

Le potenzialità che stanno dietro a queste ultime, mi hanno portato sempre più ad interessarmi degli influencer e alle attività di comunicazioni ad essi legate. Penso sia bellissimo in una realtà, il web, sempre più legata a tecnologia, bot e quant’altro, sancire ancora il valore della persona.

Il crescente buzz sull’argomento è stata poi la conferma: serviva presidiare il tema e fare chiarezza.

Il libro “Influencer marketing” che ho realizzato per Flaccovio Editore è la diretta conseguenza.

Chi sono gli influencer e perché sono così importanti?

Gli influencer sono persone che grazie ad un riconosciuto knowhow e una rilevante esposizione, diventano punti di riferimento per un gruppo. Una posizione preminente che gli permette di amplificare messaggi, arrivando in modo più credibile e influenzando i componenti di quello stesso gruppo. Semplificando a me piace dire che sono persone in grado di far accadere le cose

Non hanno poteri particolari, se non una forte componente reputazionale (fondata su elementi come: conoscenza, autorevolezza, posizione, capacità comunicative). Un mix che spinge la gente a fidarsi e a ritenerli attendibili.

In un mercato in cui gli utenti sono sempre più “vaccinati” ai messaggi e alle adv tradizionali, l’influencer diventa una risorsa di enorme valore per raggiungere i potenziali target e comunicare con essi.

Una comunicazione che si arricchisce delle qualità degli influencer e che si sviluppa “orizzontalmente”, tra individui (almeno in apparenza) simili ed affini. Un vantaggio che permette al messaggio proposto di essere più impattante e ricco di trust, ma soprattutto in grado di generare relazioni e, col tempo, di fidelizzare.

Qual è la differenza tra un influencer e un testimonial?

Ecco un punto che crea sempre dubbi e tensioni. A me piace riassumerlo così: il testimonial ci mette la “faccia”, ma solo quella! Un influencer ci mette tutto il resto: competenza, autorevolezza, credibilità, posizione. È solo così che riesce a dare quel reale valore aggiunto al messaggio del brand e, quindi, a raggiungere con il giusto impatto gli utenti. 

Altro elemento chiave quando parliamo di testimonial è la scarsa attenzione al concetto di affinità. Volendo solo associare un nome prestigioso al marchio, molti brand non analizzano minimamente quanto questo sia a loro affine, “aderente” potremmo dire. Troppa distanza rischia di non far percepire sinergia e di non generare valore condiviso, quello che il buon Rudy (Bandiera ndr.) chiama strategia del triplo win, dove vincono le aziende (perché raggiungono con credibilità i possibili target), gli influencer (hanno qualcosa di interessante da proporre ai proprio follower) e gli utenti (trovano contenuti utili e di qualità). 

Altra differenza netta sta nell’indipendenza. Un testimonial è e dev’essere totalmente “pilotato”, un influencer no. Anzi, per raggiungere gli obiettivi prefissati è doveroso lasciarlo lavorare con il suo stile, lo stesso stile che gli ha fatto guadagnare la posizione attuale. Ok dare brief, controllare il progetto, ma senza esagerare. Si rischia di svestire l’influencer di molte qualità che tanto lo rendono unico agli occhi dei follower. 

Cos’è che un influencer non può proprio fare?

Valorizzare ciò che non c’è. Essi sono infatti un medium, un mezzo che trasmette e arricchisce il messaggio, ma se alla base c’è poco, ancor meno potranno. Certo, è possibile “fare i furbetti” e non nego che a breve termine potrebbe funzionare, ma alla lunga è difficile non venire scoperti, con rischi gravissimi per la brand reputation

Quali soggetti beneficiano della comunicazione mediata dagli influencer?

Non ci sono categorie precise. Tutti, se si lavora bene e si creano relazioni positive, possono giovarsi della mediazione degli influencer. Sia per il personal branding che per un brand, la capacità di ampliare i messaggi e renderli più “commestibili” agli utenti è un plus enorme. 

Ovvio che a seconda degli obiettivi e della realtà cambieranno gli influencer da coinvolgere. Se opero nel B2B, ad esempio, e voglio dimostrare l’alta competenza che mi caratterizza, dovrò obbligatoriamente scegliere una figura dallo spiccato knowhow di settore. Se voglio dare visibilità ad un nuovo prodotto, viceversa, punterò su una figura molto conosciuta nel mio ambito. 

Infine, come si diventa opinion leader?

Conquistando una posizione di rilievo in una cerchia. Come? Valorizzando le proprie qualità e competenze, ma soprattutto essendo utile, dando risposte alle necessità degli utenti. È così che saprò creare legami e fidelizzazione, rivestendo i miei contenuti/pareri/opinioni di quei doverosi plus dell’authority e del trust. 

Sul tema consiglio gli studi di Didier Heidrich, uno studioso francese che nell’analisi della comunicazione politica ha elaborato una sorta di fenomenologia dell’influenza in rete. 9 punti che, se seguiti, riescono a generare influenza e a far assumere un ruolo da vero opinion leader. 

Ma al di là di tutto, essendo trasparenti ed autentici. Fingere porterà risultati nel breve periodo, ma alla lunga gli scheletri nell’armadio vengono sempre fuori e non la faremo franca. La trasparenza è un elemento essenziale per gli utenti, in particolare quando parliamo di relazioni. Senza questa non può nascere nessun legame di valore.

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